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Canone, ossia regola per l’iterazione e la sovrapposizione, punctum contra punctum, di una singola linea melodica.
Così nel primigenio Sumer is icumen in (XIII sec.) come nel popolare Canone e giga in re maggiore per tre violini e basso continuo di Johann Pachelbel (1680 ca.) più volte adattato in chiave pop e rock, o nell’infantile Frère Jacques (“Fra Martino campanaro”). Per non parlare delle complessità contrappuntistiche tre – quattrocentesche, che portano all’estremo il gusto per l’artificio (con regole spesso enunciate in forma di enigma), o delle “scientifiche” Variazioni canoniche su Vom Himmel hoch, da komm ich her BWV 769 di Johann Sebastian Bach (1748), in cui canoni si intrecciano al cantus firmus.
Una forma musicale, dunque, dalla congenita sofisticatezza iniziatica, stemperatasi tuttavia in esiti di sempre più ampia fruibilità.
È della polarità tracciata da questa parabola che la presente raccolta propone una sintesi: una cursoria esplorazione delle possibilità espressive del canone, anche attraverso una carrellata diacronica. Si spazia gradualmente, infatti, da uno stile “antico” (i canoni I, II e III) a uno “moderno” (i canoni VI e VII), senza mai rinunciare al gusto per la contaminazione.
La regola qui adottata è semplice: all’unisono e all’ottava e per moto retto; solo nel VII è presente, nella voce del basso, la prescrizione “per augmentationem”. Unica peculiarità, in alcuni brani, la ripresa alla fine della composizione del motivo iniziale: da parte di tutte le voci (canoni IV e VI) o solo da parte della prima (canone V).
È data, agli esecutori, la massima libertà interpretativa: sia per quanto riguarda la scelta dell’organico (i canoni sono infatti destinati, secondo la prassi cinque – seicentesca, a “ogni sorta di strumenti”), sia per quanto riguarda l’agogica e l’aggiunta di abbellimenti (purché coerenti con lo stile proprio di ogni composizione). Fanno un po’ eccezione sotto quest’ultimo aspetto i due canoni “moderni”, dove compaiono anche precise indicazioni di legato e staccato.